domenica 6 novembre 2011

Occuparsi di occupazione - Sono o Faccio?


Per motivi che non sto a riassumere ma che la sociologia e la psicologia hanno ben studiato, il lavoro che facciamo ha assunto una valenza importantissima nella definizione della nostra identità e della nostra immagine di noi stessi. E' tuttavia probabile che il cambiamento socio culturale che caratterizza questo momento storico ci conduca verso una concezione del lavoro differente dal quella del passato - ed é normale, se assumiamo una prospettiva storica. Appare dunque evidente che l'irrigidimento di posizioni e schemi di pensiero riguardanti questo costrutto - per quanto perfettamente comprensibili se letti alla luce, appunto, dell'importanza che ha 'il lavoro che facciamo' nel definire (agli altri e a noi stessi) 'chi siamo' - risultano però, ad oggi, totalmente disfunzionali.
Oppure può darsi che, molto più semplicemente, il nostro mondo sia popolato da molte persone pigre, riluttanti a correre rischi, a mettersi in gioco e a rinunciare ad una stabilità e ad un relativo benessere considerato soddisfacente.

Indipendentemente da quale sia la ragione, sembra che spesso si dimentichi che non esitono gli Operai, nè gli Statali, nè i Professori, nè, meno che mai, i Politici. Esistono piuttosto uomini e donne che fanno gli operai, gli impiegati statali, i professori o i politici. E  se la nostra società ha sempre meno bisogno di 'operai', o di 'impiegati' o di 'politici', ma ha sempre più bisogno, ad esempio, di persone che si prendono cura degli anziani, che lavorino la terra, che facciano il pane o che insegnino il cinese, questi uomini e queste donne dovrebbero prendere in considerazione l'idea che fare un lavoro diverso da quello che hanno sempre fatto potrebbe essere una necessità e non un'ingiustizia. Neppure una tragedia.
In tutta sincerità io amo il mio lavoro e ho investito tanto per farlo, se la società non ne avesse più bisogno e io incontrassi evidenti difficoltà a vendere ciò che faccio, sarebbe per me un dispiacere e non sarei contenta di adattarmi all'idea di fare un lavoro diverso. Ma mi dispiacerebbe assai di più che venissero prese delle misure affinché io potessi continuare a fare il mio lavoro nonostante non serva a granché. In tutta sincerità, lo troverei umiliante.

 

4 commenti:

  1. Mi piacciono queste considerazioni, non soltanto perché le condivido ma perché non vogliono essere né di Destra né di Sinistra: hanno un passo, un respiro diverso, comprensivo.
    Non entro nei dettagli ma appartengo alla categoria di quelli che, a un certo punto della propria esistenza, per necessità o virtù, hanno deciso di cambiare occupazione; per far questo ho ripreso in mano i libri, che comunque mai avevo trascurato. Oddio: non mi metto ad insegnare il cinese (però ho imparato qualche parola in arabo, altrettanto utile), diciamo che, terminata questa fase, resterò sullo stesso versante lavorativo ma con competenze differenti. Il termine flessibilità possiede sfumature ambigue (opportunità o presa per i fondelli?), ho cercato di renderlo un valore positivo.
    Faccio un lavoro, non sono un lavoro - il Super Io non la spunta...

    Bellissimo post, Prish.
    Un caro saluto.
    Pim

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  2. Bellissima la tua esperienza Pim! grazie di averla raccontata qui....
    un saluto, (e arrivederci al Super Io!)

    Prish

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  3. Sono d'accordo su tutto.
    Però sarebbe uno spreco se, ad esempio, tu dovessi cambiare lavoro dopo anni di studio ed esperienza, per fare un altro lavoro per cui non hai studiato nè fatto esperienza. (e quindi, molto probabilmente dequalificato).
    Il fatto è che  si è troppo spesso inteso il lavoro come "posto di lavoro" : e un aspetto è quello che hai notato, l'altro è che chi ha il "posto di lavoro" ce l'ha da qualcun altro che lo ha incasellato in un sistema. Questa mentalità è bifacciale: da un lato (occupazione pubbilica) è socialista, dall'altro (occupazione dipendente privata) è capitalistica. Ma segna sempre una dipendenza dell'uomo dal "posto" di lavoro e quindi dal "datore" di lavoro.
    Ma tutta la modernità, forse, è stata caratterizzata dal tentativo di eliminare il lavoro indipendente, legato ad una società organica, qualitativo, per far subentrare ovunque (in modo capitalista o socialista, in fondo non fa differenza) il "posto" di lavoro (il numero dei posti di lavoro), il lavoro quantitativo, il lavoro merce e basta, eecc.
    Questa concezione quantitativa porta al fatto che tutto sommato oggi non ci sarebbe nemmeno realmente bisogno di lavorare: si "creano" posti di lavoro solo per continuare questo gioco (se lavori puoi guadagnare, se guadagni puoi spendere, se compri vendi, se vendi produci ecc.). Ma è tutto il sistema che crea frustrazione, proprio perché tutto è spersonalizzato, quantitativo appunto (il lavoro, quello che compri, ecc.)

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  4. Biz, sono del tutto d'accordo: è una mentalità bifacciale. E' un modo, non necessariamente errato, ma senz'altro parziale di considerare il concetto di lavoro. Io credo che stiamo finendo nella situazione paradossale per cui creiamo posti di lavoro poco utili al fine di dare stipendi cosicchè le persone possano pagare ad altri quei servizi utili di cui potrebbero benissimo occuparsi da soli. E ripeto non ho idea di come si potrebbe far meglio, e le mie sono riflessioni sterili, inutili e provocatorie. Ma almeno pensiamoci.

    A presto, buon we!
    Prish

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